Tweet


MORTALITÀ, DECLINO DELLA
Per molti secoli le popolazioni del mondo occidentale e in particolare quelle dell'Europa, le sole per le quali si dispone di informazioni quantitative, conobbero livelli generali di mortalità elevati e relativamente poco variabili. Si valuta che la durata media della vita in tarda epoca romanica fosse compresa fra i trenta e i trentacinque anni; di poco superiori sono i valori che caratterizzarono il tardo Medioevo fino ad arrivare alla metà del XVII secolo, per il quale la durata media della vita si calcola intorno ai quarantacinque anni. Nonostante l'esistenza di situazioni differenziate geograficamente, il cammino percorso dalle popolazioni europee nella lotta contro la morte può essere schematizzato a partire dal momento in cui le informazioni acquistano maggiore affidabilità. Dalla metà del Seicento, con la scomparsa delle grandi carestie e delle epidemie di peste, assai diffuse nel corso dei tre secoli precedenti, i tassi di mortalità sono caratterizzati da periodici rialzi provocati dal diffondersi di malattie infettive (vaiolo, tifo ecc.). Era il periodo delle epidemie sociali legate a situazioni di sottoalimentazione, alla miseria, alla emigrazione di emarginati e di affamati. Durante il XVIII secolo, soprattutto grazie a più efficaci interventi dei governi, l'incidenza della mortalità diminuì drasticamente in gran parte dell'Europa e si giunse alla seconda fase nell'evoluzione della mortalità, quella di stabilizzazione: con la riduzione delle epidemie, infatti, divennero relativamente più importanti le malattie infettive endemiche, il cui effetto sulla mortalità era pressoché costante. Solo con l'ultima parte del XIX secolo la mortalità riprese a diminuire fortemente in molte aree d'Europa; per altre, quelle meridionali in particolare, solo nel Novecento si registrarono guadagni sostanziali e permanenti. Agli inizi del XX secolo i valori della speranza di vita alla nascita erano quasi dovunque assestati, in Europa, su livelli superiori a quarantacinque anni, con i paesi nordici (Svezia, Norvegia e Danimarca) oltre i cinquanta, mentre alcuni paesi del Nuovo mondo godevano situazioni ancor più favorevoli. Da allora il declino della mortalità nei paesi sviluppati non subì interruzioni, salvo qualche occasionale punta epidemica nel primo ventennio del secolo, come la febbre spagnola e, dopo la Seconda guerra mondiale, la sopravvivenza umana conobbe progressi di dimensioni tali da farle superare quelli che, ancora intorno al 1970, si riteneva fossero limiti biologici: questa tendenza fu generale, con minime differenze regionali, fino a raggiungere alle soglie del Duemila, nel mondo occidentale, una speranza di vita alla nascita dovunque assai vicina agli ottant'anni. Anche se il declino della mortalità interessava tutte le età, alla diminuzione della mortalità infantile si dovette soprattutto questo fenomeno. Grazie all'accresciuta salubrità dell'ambiente domestico ed extradomestico, alla progressiva diffusione delle vaccinazioni, all'introduzione dei sulfamidici e degli antibiotici, il tifo, la tubercolosi, la difterite, le enteriti, le "grandi assassine" che avevano fatto vittime soprattutto tra i bambini e i fanciulli, retrocedettero progressivamente agli ultimi gradini della graduatoria delle malattie e delle cause di morte, liberando la durata media della vita dagli effetti provocati dalle perdite premature. Il quadro nosologico dominato dalle malattie di natura infettiva e acuta fu negli ultimi decenni del Novecento progressivamente sostituito da quello in cui dominavano le malattie degenerative e da stress, quelle che vengono dette man-made deseases, malattie fabbricate dall'uomo. Dove e quando sono tali malattie a prevalere, in particolare il cancro e l'infarto, caratterizzate da un'età media alla morte relativamente elevata, la maggioranza della popolazione sopravvive oltre i settant'anni, e la vita media generale è di conseguenza pari o di poco superiore a questo livello. Sulle cause del declino della mortalità nel mondo occidentale il dibattito tra gli studiosi è ancora aperto. Sono stati identificati fattori generali quali il miglioramento negli standard di vita, delle condizioni sanitarie e dell'igiene, fattori specifici quali il progresso nelle cure mediche, nello sviluppo delle infrastrutture sanitarie e negli ospedali. Il fatto di aver osservato in contesti differenti dal punto di vista istituzionale, storico e geografico, marcate analogie nei mutamenti di mortalità ha indotto, peraltro, molti autori a cercare altrove le loro determinanti, in particolare nel clima o nella virulenza di microrganismi. È possibile che tra queste varie determinanti, seppur all'apparenza parzialmente indipendenti l'una dall'altra, esistano effetti di interazione; tuttavia alcuni studiosi hanno provato a trovare la condizione preminente che dovrebbe costituire la chiave di spiegazione del declino della mortalità, cercando di stimarne l'apporto. Il tentativo più noto è quello di Th. McKewn, che ritiene causa principale l'innalzamento nelle condizioni di vita e il conseguente miglioramento nella nutrizione, che ha accresciuto la resistenza agli agenti infettivi. In questa teoria la nutrizione è il legame necessario tra i fattori socioeconomici e quelli biologici. Altri hanno sostenuto che, poiché nelle prime fasi della transizione i miglioramenti generali negli standard di vita non erano affatto consolidati, la supposta relazione tra nutrizione, morbosità e mortalità potrebbe non essere stato il fattore più importante per spiegare il declino della mortalità, mentre va data maggior importanza all'influenza di una serie di variabili (socioculturali, economiche e biologiche) e alla complessità delle relazioni tra esse esistenti.

A. Santini


T. McKewn, L'aumento della popolazione nell'età moderna, Feltrinelli, Milano 1979; The Decline of Mortality in Europe, a c. di R. Scofield, D. Reher, A. Bideau, Oxford 1981.
Stats